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Troppo poco tempo abbiamo dedicato alla terra dei Khemr. Dodici giorni, il tempo per attraversarla nella sua parte nord, dal confine con il Laos al confine con la Tailandia passando per il mitico Angkor Wat e le calme acque del lago Tonle Sap.

L’Angkor è la prima struttura turistica che visitiamo in tutto il viaggio. Siamo passati accanto al primo tratto di muraglia cinese nel Qinghai ed il prezzo del biglietto ci ha fatto desistere dalla voglia di poggiare i piedi su quell’opera straordinaria, volevamo avventurarci tra le altissime montagne del Sichuan, ma i costi d’ingresso del parco hanno acquietato il nostro desiderio di avventura. Ma certo non potevamo entrare in Cambogia e non perderci tra la maestosità dell’architettura Khmer, se non altro per ricordare a noi stessi che, queste terre che oggi faticano per mettersi al passo con l’occidente, sono state un tempo sede di straordinarie società.

Pedalando nel passato


E’ una delle poche tracce di passato che si trovano nel Sud Est Asiatico ed in Asia in generale. Dopo i meravigliosi, e fintamente ricostruiti, palazzi di Bukhara e Khiva, non abbiamo più potuto ammirare nulla che non fosse più vecchio di 40’anni, esclusione fatta per le opere della natura, ovviamente. L’Angkor Wat è quindi un’enorme occasione, che vale ogni singolo centesimo del biglietto (40$ per 3 ingressi o 20$ per un giorno). E poi, diciamoci la verità, anche un modo per vivere le avventure di Indiana Jones o Tomb Rider (sì, confesso, ci ho giocato ed anche con passione!).

Tutto il complesso (enorme!) è assolutamente ben preservato. La macchina turistica che vi gira attorno è un orologio svizzero, impeccabilmente organizzato. Le guide, tutte cambogiane, parlano le lingue più impensate. Un reticolo di strade linde conduce tra i resti straordinariamente conservati. Non c’è segno di decadenza, abbandono. E’ una delle poche fonti di guadagno di questo paese e si vede!

Tra le rovine Khmer si trovano anche le rovine della guerra, ovvero un gruppo di suonatori i cui arti sono stati mutilati da quella follia che si chiama “mina antiuomo”. Rimpiango di non aver avuto il tempo di visitare il “Cambodian Landmine Museum and Relief Center“, purtroppo ho scoperto della sua esistenza solo più tardi, leggendo,non ricordo bene dove, l’incredibile storia di Aki Ra, il fondatore di questo progetto che non solo si occupa di mine antiuomo, ma della formazione e crescita di bambine e bambini in difficoltà.

Fuori dal brulicare dell’Angkor ci sono strade deserte, un cielo limpido ed un caldo che comincia ad essere soffocante. Ancora in compagnia di Davie, Stefania ed Alessandro, decidiamo di imbarcarci per attraversare il lago di Tonle Sap e raggiungere Battambang. E’ un viaggio alla scoperta di un’altra delle meraviglie della Cambogia: i villaggi galleggianti.

La nave fantasma


Prendere questa barca però non è stato così banale. Non c’è un bel molo con un cartello che dice “Siem Rip – Battambang”, non c’è nemmeno la strada per arrivare al fantomatico molo. L’avventura comincia dall’acquisto del biglietto.

La biglietteria non espone alcun cartello, è un piccolo ufficio turistico appiccicato ad una taverna locale. Impieghiamo due giorni per riuscire a parlare con l’addetta, che sembra volatilizzarsi ogni volta che arriviamo lì. Terminato l’acquisto in un inglese inesistente, chiediamo delucidazioni su come raggiungere la barca, ma lei non ha la più pallida idea di dove si trovi il posto. Si aggira nervosamente tra cartine che mostrano a mala pena i 500 metri intorno a noi, indicandoci posti improbabili. Chiede consiglio ad un tassista, ma anche lui sembra brancolare nel buio. Acquistiamo il biglietto consapevoli che forse la barca non la raggiungeremo mai!

Per fortuna esiste Osmand e la sua comunità, una stradina segnata tratteggiata sembra condurre ad un porto disperso nel nulla. Mettendo assieme le deliranti informazioni della commessa, qualche foto dubbia trovata su internet ed il nostro sesto senso, decidiamo che quello deve essere il porto.

La nave parte alle 7 e dobbiamo essere lì due ore prima, previa impossibilità di imbarcarsi. Alle prime luci dell’alba siamo già in strada, pedaliamo su strade sterrate tra campi coltivati, mucche al pascolo e contadini stupiti di vederci da quelle parti. Dopo vari zig-zag raggiungiamo il posto che avevamo visto in foto, ma sorpresa il fiume non c’è! L’acqua che lambiva le sponde del molo è un letto secco, zozzo e nauseabondo. Una signora che ci vede in evidente difficoltà ci indica di proseguire seguendo il letto del fiume, assicurandoci che troveremo la barca che ci porterà a Battambang. Raggiungiamo il “porto” più fatiscente mai visto.

L’acqua mi ricorda ciò che restava nel bicchiere dopo aver sciacquato i pennelli intrisi di tutti i colori possibili, non ho mai capito perché anziché uscire un magnifico arcobaleno uscisse sempre una mistura grigio topo.
Sulle rive del fiume giacciono esanimi dei piccoli pesci, segno che non siamo proprio nel posto migliore per l’itticoltura, eppure, come ogni porto, il posto è sede del mercato del pesce. Insomma un turbinio di odori dal quale vorrei scappare il prima possibile.

Sono le 7, dovremmo partire ma pare che siamo gli unici avventori della barca e che dobbiamo attendere che questa si riempia per salpare. Ci prepariamo quindi a passare qualche minuto di attesa, minuto che diventa ore. Ammazziamo il tempo guardandoci intorno, scrutando nelle baracche in cui vivono queste persone. Baracche non è nemmeno il termine esatto: panche di legno con un tetto e qualche tappeto sul quale dormire. Padri, madri, figli, tutti vivono lì. All’aperto, senza bagno, senza mura, senza ciò che per noi è definita “casa”.

Mi colpisce in particolare un signore addetto alla cottura del pesce arrosto, piatto molto richiesto come colazione dai passanti. Siamo arrivati che ancora stava dormendo. Pantaloni lerci e maglietta bianca strappata. Appena terminato di arrotolare il tappeto sul quale dormiva ed accendere i carboni, si lava i denti, sparisce dietro una siepe, e torna indossando una bella camicetta rossa a righe e dei nuovi pantaloni neri. Non sono lindi ma gli donano comunque un certo tono. Mi colpisce come nonostante le terribili condizioni di vita, sentisse lo stesso il bisogno di apparire presentabile, distinto. Potrebbe tranquillamente servire i suoi clienti vestito dei suoi abiti peggiori, eppure sente la necessità di mostrare la sua dignità non solo nel carattere ma anche nell’apparenza.

Finalmente arriva il resto dei naviganti e, caricate le biciclette in maniera dubbia, cominciamo la navigazione. Il tratto sul lago procede velocemente, appena entrati nel fiume che ci porterà a Battambang capiamo perché la navigazione dura più di 7 ore.

Villaggi galleggianti


Il fiume è un serpente dalle strette spire, ad ogni curva il battello deve rallentare e fare una manovra complicatissima per andare oltre. Non solo, per evitare di annegare gli abitanti del lago, rallenta ad ogni passaggio di una qualsiasi ulteriore piccola imbarcazione. Il tempo a bordo passa tra l’incanto dei paesaggi galleggianti e gli indovinelli di Davide, che, da buon matematico, decide di mettere a dura prova il nostro intelletto.

La vita qui si svolge completamente in acqua. Case, negozi, orti, animali, scuole, tutto galleggia. Se si sente la necessità di spostare la propria casa, basta attaccarla ad una imbarcazione per trainarla nel punto desiderato. E mentre le acque del lago sembravano aver assunto una colorazione familiare, quelle del fiume tornano ad essere putride, non invitanti. Le sponde sono completamente ricoperte da immondizia, eppure è tutto un brulicare di vita. Ogni tanto dall’acqua esce qualche pescatore che stringe forte nelle mani un retino, piccoli battelli adibiti a case gestiscono delle bilance per una pesca più redditizia e tanti, scatenati bambini nuotano serenamente. Non smetterò mai di stupirmi nel vedere come l’essere umano sia in grado di adattarsi a vivere in qualsiasi condizione.

Arriviamo a Battambang che già è buio. L’idea di metterci in cerca di un posto per dormire proprio non ci piace. Chiediamo quindi al capitano della barca se possiamo passare la notte su uno dei battelli ormeggiati. Dopo qualche minuto di contrattazione decide che si può fare. Mentre ci sistemiamo per passare la notte il capitano ci chiede di salire in strada in quanto dei poliziotti vogliono farci firmare un foglio in cui egli declina ogni responsabilità su di noi.
Saliamo e troviamo una situazione bizzarramente conviviale. Poliziotti e marinai ridono e bevono attorno al tavolo. Ci fanno semplicemente compilare un foglio con il nostro nome, cognome e numero di passaporto e alla fine ci chiedono ciò che veramente volevano: una bella foto di gruppo!

Brevi fatti sul viaggiare in Cambogia:

– Le transazioni avvengono in doppia moneta: dollaro e riel. I bancomat rilasciano solo dollari, ma basta andare in qualsiasi mercato e fare qualche acquisto per ricevere come resto i riel.

– A causa dell’enorme quantità di mine antiuomo non è mai prudente addentrarsi troppo in zone non battute

– Se volete darvi alla cucina asiatica spinta, questo è il luogo ideale. Non fatevi intimorire dall’aspetto e lasciate che anche il palato assapori il piacere del viaggiare.

– Non perdete l’occasione di gustare frullati di cocco, avocado, mango, ananas e tutto il ben di dio della frutta tropicale nei mercati locali. Sono la cosa più squisita che abbiamo bevuto/mangiato in Cambogia.

– L’acqua è un bene raro. Fuori dai centri abitati proprio non si trova. Come in Laos abbiamo optato per i bidoni di acqua filtrata da 20 litri, per soli 5$.

– Il battello da Siem Riep a Battambang costa 25$

– Consiglio vivamente di prendere una bicicletta per girare per l’Angkor

– Il Turismo non è sempre il male, soprattutto quando fatto con responsabilità e se permette alle persone del luogo di vivere più che dignitosamente.
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