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49esimo piano di un grattacielo che affaccia sulla futuristica baia di questa anomalia che si chiama Hong Kong. L’aria di agosto è irrespirabile, i grattacieli svettano verso un cielo grigio, forse alla ricerca del blu, di quel blu intenso che qui non c’è. Ripenso al blu delle montagne, di tutte le montagne che abbiamo attraversato per giungere qui. Ripenso al blu, al marrone ed al verde che hanno accompagnato la nostra avventura lungo le strade, sgangherate e mai noiose, dell’Asia Centrale. Ripenso ai paesaggi lunari, alla neve, alla solitudine ed all’aria sottile dei 4000 metri della Pamir Highway…

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dushanbe, la capitale

Arriviamo a Dushanbe alla fine di marzo, la primavera è ormai esplosa e con lei le incessanti piogge che rendono questa parte di mondo lussureggiante di verde. La capitale del Tagikistan non ha molto da offrire, strade e palazzi in stile perfettamente post-sovietico che si scontrano fortemente con l’abbigliamento tradizionale delle donne tagike.

Le giornate di preparazione alla grande avventura Pamir scorrono tra discussioni per estendere il visto, richieste per accedere alla regione autonoma del Gorno Badakhshan (che ricopre gran parte del paese e quindi del Pamir Plateau) e compagnie meravigliose nate un po’ dal caso un po’ dai social network. Come Aziz e Véronique: il primo conosciuto ad un pranzo invitati da un compagno di stanza dell’ostello, la seconda contattata tramite warmshowers. Entrambi saranno i nostri angeli custodi per tutta la permanenza in Tagikistan, nazionalità diverse, vite completamente diverse, ma in comune una innata passione per il prossimo!

Lasciamo la città carichi come mai lo siamo stati prima, carichi di cibo per affrontare la dura pedalata, carichi di desiderio di scoperta e carichi di domande. Come sarà la Pamir? E la Wakhan Valley? Sarà davvero uno dei posti più remoti della terra? Ce la faremo a superare gli ostacoli che si presenteranno?

La strada che da Dushanbe porta fino alle gole del fiume Panj si rivela molto meno remota di quanto pensassimo. Asfalto nuovo nuovo (messo lì pare da ditte cinesi), gallerie da tachicardia (i cinesi hanno dimenticato l’illuminazione), verdi prati, e l’inaspettato lago di Nurek, ci accompagnano fino alla città di Kulob, già nota per la pesante presenza dei trafficanti di droga che, dal confine con l’Afghanistan, penetrano fino in Uzbekistan per poi raccogliere i frutti del “duro lavoro” vendendo il bottino in Russia. Per fortuna dei trafficanti non vediamo traccia, al contrario, come spesso accade, ci troviamo circondati da persone meravigliose che hanno solo voglia di conoscere chi “viene da lontano”. A cominciare da un gruppo di amici di Aziz che ci offre un meraviglioso e luculliano pasto (energie necessarie ad affrontare il primo passo tagiko, Shurobod Pass) arrivando ad un ragazzo di 16 anni che, nonostante la pioggia battente, decide di accompagnarci, lui a piedi noi in bici, per la prima parte di salita.

Il ragazzo ci colpisce profondamente, studia inglese anche dopo la scuola ed il suo sogno è andare in America, alla ricerca di opportunità che qui a Kulob non avrà mai. La sua sete di inglese è sconcertante tanto da farci temere che ci seguirà a piedi fino alla cima del passo, ovvero a 15 chilometri da dove ci troviamo! Per fortuna riusciamo a convincerlo a tornare verso casa, aiutati dalla pioggia sempre più forte. Prima di lasciarci non manca di ricordarci che “Kulob people are bad” (le persone di Kulob sono poco affidabili). In effetti i volti degli avventori della pompa di benzina in cui ci rifugiamo (sempre a causa della pioggia battente) sono davvero poco rassicuranti. Dopo quasi un anno in strada i sensi si affinano e aiutano a comprendere se un luogo è sicuro o meno, e la strada che da Kulob porta al passo di Shurobod non ci sembra un luogo sicuro! Fatichiamo a trovare un posto per dormire che ci dia tranquillità, fino a quando non incrociamo lo sguardo di un ragazzo con indosso un chapan intento a lavorare la terra. Lo sguardo sorridente e pulito ci fa capire che possiamo fidarci. E così mettiamo la nostra tendina nel campo dietro la sua casa.

La notte passa tranquilla, la zona è curiosamente silenziosa. Non si sentono macchine, voci o animali. Nulla. Solo di tanto in tanto qualche scroscione di pioggia rompe il silenzio.

La salita verso il passo comincia promettente. Ripida ma con fondo asfaltato. Dove sono i fuori strada della Pamir? Ci chiediamo quasi delusi. Nemmeno il tempo di pensarlo che a qualche chilometro dalla vetta l’asfalto scompare ed al suo posto arrivano brecciolino e fango, in buona compagnia di una fitta nebbia che ci impedisce di godere della conquista della cima!

il fiume Panj

La strada che dal passo scende fino alle rive del Panj è qualcosa di spettacolare, da brividi! È vertiginosa, sterrata e ad una sola corsia, quando arriva un camion dobbiamo fermarci ed accostarci il più possibile alle pareti rocciose. Segue costante un torrente che ha scavato nella roccia delle pareti altissime, delle gole così alte che a stento si vede il corso del fiume. Tranne qualche coraggioso camionista, qualche jeep di dubbia provenienza e gruppi solitari di mucche, ci siamo solo noi (per fortuna). È il nostro primo approccio con la Pamir e ci piace tantissimo!

Da qui in poi cominciamo la lunga pedalata lungo le rive di questo particolare fiume, il Panj, confine naturale e politico, che separa il Tagikistan dall’Afganistan, questi due paesi diversi ma uguali, a cominciare dalla lingua, il farsi. Identica in teoria, ma diversa nella scrittura (caratteri cirillici in Tagikistan ed arabi in Afganistan). Uguali nei volti, nella cultura e nella religione. Entrambe le rive del Panj sono di religione ismaili, gli occhi a mandorla che ci hanno accompagnato in Kazakistan e Uzbekistan sono stati sostituiti da splendidi occhi chiari.

Ma se da un lato, tagiko, lo sviluppo è evidente, dall’altro è evidente il suo opposto.

La sponda afgana è aspra, difficile, arretrata. Non ci sono strade ma sentieri, spesso scavati nella roccia, così stretti che stentiamo a credere possano essere praticabili. Ed invece ogni giorno contadini e pastori in compagnia di asini temerari si inerpicano per questi luoghi. Li osserviamo da lontano gli afgani. Così lontani dalle loro terre martoriate dai conflitti. Protetti dalle imponenti montagne alle loro spalle. Li vediamo bambini camminare verso scuole di fango, li vediamo ragazzi ballare come dei matti per attirare la nostra attenzione, li vediamo adulti a lavare i tappeti nel fiume, a spostare enormi massi per liberare la strada, ad urlare ai buoi mentre arano il campo su ripidi pendii. In alcuni punti il Panj è così stretto che li vediamo così vicini che vorremmo poter entrare nelle loro scuole di fango, ballare con loro, spingere il loro aratro e battere i loro tappeti. Vorremmo poter vivere un pezzo della loro vita, così vicina ma così lontana a causa della burocrazia della guerra.

Il lato tagiko del fiume gode del filantropismo del Naziri Imam, Aga Khan IV. Un magnate britannico, Imam degli ismaili, la cui fondazione sta investendo nello sviluppo di queste aree remote del pianeta. Il logo della Aga Khan foundation riempie le gole del Panj. Tralicci per l’elettricità, centrali idroelettriche, impianti per l’acqua potabile, università privata con impronta internazionale. Oltre alla fondazione sono presenti molte altre ONG internazionali che rendono questa parte del Tagikistan, la regione autonoma del Gorno Badakshan, paradossalmente più sviluppata dal punto di vista intellettuale rispetto al resto della nazione.

Khorog

Arriviamo a Khorog, cittadina nel cuore del Pamir, dopo 10 giorni di pedalate di cui gli ultimi sono stati estenuanti. La strada asfaltata termina qualche centinaio di chilometri da Khorog, per lasciare posto ad uno sterrato stretto e sabbioso, impegnativo per le nostre bici e per il carico che ci portiamo dietro.

Ripartiamo dopo ben 4 giorni di riposo, coccolati dalla splendida famiglia di Solimshoh. Famiglia all’avanguardia in cui padre e figli lavorano per ONG straniere, la facile comunicazione in inglese ci permette di conoscere meglio la situazione nel Gorno Badakhshan. Situazione precaria che porta spesso alla chiusura della zona, impedendo agli stranieri di accedervi.

La pedalata da Khorog a Langar, ultimo avamposto prima di salire sul plateau a 4000 metri, procede tranquilla su una strada a tratti asfaltata ed a tratti impossibile, tra giorni di pioggia e villaggi piccoli ma pieni di vita. Bambini che camminano verso la scuola, donne che pascolano animali e giovani che praticano lo sport più inaspettato: la pallavolo!

Ogni singolo villaggio dispone di un piccolo campo rudimentale, sempre pieno di ragazzi e ragazze che giocano con passione. A Langar ci concediamo una pausa prima del nostro primo passo sterrato a 4300 metri, ma soprattutto ci godiamo una bella partita a pallavolo con un gruppo di ragazzi divertiti dalla nostra presenza e ci dimentichiamo per un po’ della fatica che stiamo per affrontare.

kargush pass

Il passo decidiamo di superarlo com calma, in 3 giorni di pedalata. Sappiamo che è un tratto difficile della Pamir, qui è dove si lascia definitivamente la valle del Panj per salire nel plateau.
I primi chilometri ci fanno capire cosa stiamo per affrontare, impedalabili! Il fondo di sassi e sabbia ci costringe a spingere la bici su pendenze impegnative persino a piedi e l’aria sottile comincia a farsi sentire nel respiro sempre più affannato.

Sono i tre giorni più remoti del viaggio, il paesaggio diventa sempre più lunare, la strada sempre più difficile e le macchine, o meglio jeep, sono scomparse del tutto, non ci sono villaggi, non è possibile fare nessun tipo di rifornimento. Ci siamo solo noi, il Panj sempre più stretto pronto a salutarci per perdersi tra Pakistan ed Afghanistan, ed i picchi innevati di queste montagne meravigliose e dure. La solitudine è interrotta dall’ultimo controllo militare. Il tempo di verificare il permesso per la zona, il visto e siamo di nuovo sulla sterrata per il nostro primo 4000.

4320 metri che raggiungiamo la mattina di un meraviglioso giorno di sole, l’eccitazione per questo primo traguardo è altissima, tanto da non farci sentire la fatica sui chilometri di brutto sterrato che ci riportano sulla vera M41 e definitivamente sul Plateau. La nostra meta ora è Alichur, dopo 3 giorni di autonomia abbiamo bisogno di rifornire le nostre borse di cibo ed energia!

Alichur, che nel nostro immaginario era un rigoglioso paesino, in realtà è un insieme di poche case adagiato in una piana desertica e sassosa, circondata da quelle che ai nostri occhi sembrano colline ma che in realtà sono vette oltre i 4000 metri. Non c’è acqua, un signore riempie le nostre bottiglie prendendola da enormi bidoni di plastica blu, e l’unico negozio dove rifornirsi è un piccolo market i cui prodotti imbustati sono rigorosamente scaduti da molto tempo. Noi ce la caviamo con mezzo chilo di griecka (grano saraceno) e uova. Sono il nostro piatto principale durante questo tratto di viaggio.

Il resto della M41 è una lingua d’asfalto che scivola tra rocce rosse ed infinite piane lunari, per lasciare il passo ad un brutto sterrato proprio nel suo tratto più difficile i 4655 metri dell’Ak Baital, il passo più alto.

I passi della Pamir non hanno nulla a che vedere con i passi alpini, niente lunghe e ripide salite su tornanti mozzafiato, niente cime che guardano a valle. Sono ripide salite di qualche chilometro (spesso dritte), in cui il paesaggio rimane immutato. La percezione dell’altitudine elevata è data solo dal respiro, sempre più affaticato.

ancora più su

Cominciamo la nostra pedalata verso la cima con un meteo poco promettente, il cielo è plumbeo e comincia piano piano a piovere. Pioggia che si trasforma in bufera di neve non appena tocchiamo la sommità del passo. Io, come spesso sulla Pamir, mi ritrovo a spingere la bici a tre chilometri dalla cima. Tre chilometri lunghi e faticosi in cui mi trovo spesso a pensare che se stessi a piedi, senza bici, non avrei difficoltà; a pensare che sulle Alpi per fare una cima di 4600 metri avrei bisogno di corda, picche, ramponi ed un buon primo di cordata! Qui ho solo bisogno di tanta forza di volontà per spingere la bicicletta sotto la tormenta.

La discesa dal passo è faticosa quanto la salita, lo sterrato è davvero brutto e la nevicata intensa. Dobbiamo assolutamente trovare un riparo o almeno uno spiazzo dove mettere la tenda. Percorriamo qualche chilometro imprecando contro lo sterrato che ci impedisce di andare veloce e sfuggire alla bufera. Fino a quando non raggiungiamo un letto di fiume, naturalmente asciutto, ci sembra il posto ideale dove fermarsi. Il tempo di montare la tenda, stupirci alla vista di una meravigliosa volpe rossa, unica compagnia fino a questo momento assieme alle tante marmotte rosse che popolano la zona, e siamo già nel caldo del sacco di piuma. E’ Aprile, ma la primavera è ancora lontana da queste parti!

Al nostro risveglio il Pamir, e la nostra tenda, sono completamente ricoperti di bianco. Il silenzio già tipico di questo posto remoto, è ancora più assordante. Non ci sono insetti, uccelli, persone a movimentare il sonoro di queste zone, solo il vento che soffia incessante tra sabbia, sassi ed ora neve.

E’ il paesaggio più bello che abbiamo visto fino ad ora, siamo estasiati. Le nuvole cominciano a diradarsi ed il cielo blu comincia a dominare la piana, creando un contrasto meraviglioso con il bianco ed il marrone delle rocce che qui e là ancora affiorano. E mentre sciogliamo la neve sul fuoco per procurarci l’acqua necessaria per i giorni a seguire, non smettiamo di mormorare quanto sia meraviglioso l’altopiano in bianco!

Il passo più difficile è fatto, ora dobbiamo solo pedalare verso il confine con il Kirghizistan. Lo sterrato coperto dal sottile strato di neve risulta decisamente più facile da pedalare e fortunatamente lascia presto il passo nuovamente all’asfalto e così in poco tempo raggiungiamo il villaggio di Karakol. Poche case adagiate sulle rive dell’omonimo lago, le cui sponde sono al momento ricoperte da una coltre di ghiaccio. La popolazione qui è già kirghiza. Ritornano gli occhi a mandorla e scompare il farsi. Qui si veste, si mangia e si parla kirghiso.

E’ la nostra ultima notte nel Pamir, mancano oramai pochi chilometri ed un passo al confine. Decidiamo quindi di riposare per bene in una Homestay. Le sistemazioni qui (come in tutto il Tagikistan) sono semplici. Si dorme in terra nella stessa sala dove si mangia e dove la stessa famiglia che ospita passa la maggior parte del tempo. Non esiste doccia ed il riscaldamento è una grande stufa al centro della casa. Non esiste coltivazione e l’unica fonte di cibo sono gli Yak. Da loro dipende la vita di chi abita questo aspro territorio. Il loro latte è la fonte primaria di sostentamento, il burro che ne deriva è la massima espressione di energia. A cena latte, burro e riso. A colazione latte, burro e riso.

Per fortuna siamo al chiuso ed al caldo. Fuori la temperatura è scesa drasticamente sotto i -10 gradi centigradi e al mattino troviamo tutte le nostre bottiglie di acqua completamente ghiacciate, ma l’assenza di nuvole in cielo permette al sole potente di cominciare la sua opera di scongelamento.

verso il kirghizistan

Ci avviamo così verso il nostro ultimo passo a 4000 metri ed il confine con il Kirghizistan. Sono gli ultimi faticosissimi chilometri. Il vento che ha spazzato via le nuvole, sta spazzando via anche noi! Ancora sterrato e controvento. Mancano solo 10 km al confine ed all’ultimo passo ma dubitiamo che riusciremo a farcela. Lo sterrato ed il vento sono contro di noi. Come non volessero lasciarci andare via da questa avventura. Come percepissero i nostri sentimenti. Ci stiamo avvicinando al confine, alla fine della Pamir, alla fine di questo tratto di viaggio che ci sta impegnando fisicamente e mentalmente; ci stiamo avvicinando alla fine di questo tratto di viaggio che, a diritto, può essere definito “avventura” “sfida”. Cosa ci sarà dopo? Sarà altrettanto eccitante o saranno solo chilometri da pedalare fino alla prossima avventura? E’ difficile spiegare cosa si prova alla fine di una grande prova, si è eccitati per l’obiettivo raggiunto, ma allo stesso tempo comincia un senso di vuoto, di smarrimento, di ricerca della sfida successiva.

Per fortuna c’è ancora l’ultimo passo a tenerci incollati alla “sfida” Pamir. Quindi stringiamo i denti ancora una volta ed a testa bassa spingiamo le nostre biciclette contro il vento, lo sterrato ed il controllo al confine, per arrivare sulla cima del passo che è quasi buio.

Tra il bordo del Tagikistan e quello del Kirghizistan ci sono ben 15 chilometri di distanza. Oramai è sera e non possiamo pensare di pedalarli, tanto più che la prima parte è un brutto sterrato fangoso. Troviamo ospitalità per la notte nella casa di una famiglia, che vive tra i due confini, in cui il marito si occupa del mantenimento del fondo stradale di questi 15 chilometri di terra di nessuno.

E’ un’altra gelida notte, l’ultima forse dato che oramai in Kirghizistan dovremmo tornare ad abbracciare la primavera. Ed al mattino fortunatamente il gelo ha indurito il fango e pedalare risulta più facile del previsto. Comincia la lunga discesa dall’altopiano del Pamir. Comincia la lunga discesa dai 4000 metri. Comincia la lunga discesa verso un nuovo paese. Il paesaggio è già cambiato, niente più rocce ma erba e neve sui pendii. Il cielo però è sempre lo stesso, di quel blu intenso che solo l’aria rarefatta può regalare, il cielo delle alte quote, delle zone e dei picchi remoti.

La giornata è meravigliosa e la discesa piacevole. Ci concediamo una sosta a lato strada, su un piccolo tratto di erba tra chiazze di neve. Il Pamir oramai è alle nostre spalle con tutta la sua avventura, di fronte a noi si comincia ad aprire il verde Kirghizistan, nelle nostre menti cominciano già i ricordi e la voglia di altre sfide.

E’ tempo di rimontare in sella e continuare a pedalare. Chiudo gli occhi, respiro profondamente per assaporare ancora l’aria di queste zone, per assaporare ancora il Pamir.

Li riapro e vedo i grattacieli di Hong Kong, ma vedo anche la prossima avventura tutta racchiusa nel nuovo visto sul passaporto… Il Pamir è stato il banco di prova, è tempo di andare più in alto!

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