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Che la Cina non sarebbe stato un paese “facile” l’abbiamo capito dalle difficoltà per ottenere un visto che andasse oltre i 30 giorni.

Dopo ben due mesi tra Kyrgyzistan e Kazakistan, desistiamo ed accettiamo i 30 giorni non rinnovabili che ci presenta l’ambasciata di Almaty. Decisi a pedalare il più possibile per poi prendere un mezzo, fuggire ad Hong Kong e valutare la seconda parte di itinerario in Cina. Decisione difficile, quella di prendere un mezzo, per noi che sognavamo di traversarla tutta d’un fiato con le nostre biciclette. Decisione difficile perché forse non riusciremo a raggiungere il terzo passo del nostro progetto.

Con l’animo confuso, lasciamo Almaty in un bollente pomeriggio di luglio. Il termometro al sole segna più di 50°, all’ombra non scende sotto i 45°. Fatichiamo a prendere il ritmo con queste temperature. Pedaliamo fino all’ora di pranzo, pausa e poi tentiamo di ripartire. Ma il caldo è davvero troppo soffocante, e non siamo ancora nel temuto deserto dello Xinjiang!

Già al confine ci rendiamo conto che stiamo per entrare in un paese che lascerà il segno.

Dal lato del Kazakistan ci salutano poche case fatiscenti, una barra di legno e del personale sorridente ma decisamente poco dedito alla propria professione. La Cina è a pochi ma difficili passi. A separare i due confini ci sono ben 8 chilometri di strada video-sorvegliata con alte recinzioni. Siamo nello Xinjiang, regione turbolenta, e si vede. Così come si vede che siamo nello stato delle esagerazioni.
Il check point cinese è impressionante. Tanti sportelli, pronti ad accogliere centinaia di visitatori. Peccato che oggi siamo solo noi due! Horgos, quella che pensavamo fosse una quiete cittadina di frontiera è in realtà una megalopoli, con autostrade in pieno centro, grattacieli e negozi dalle potenti, colorate e numerose luminarie. Ci accolgono subito folti gruppi di turisti cinesi impegnati a fotografare loro stessi con il cartello di frontiera, biciclette elettriche e bancomat che rifiutano la nostra carta di credito, così come gli operatori della compagnia telefonica che si rifiutano di darci una scheda poiché non disponiamo di una carta d’identità cinese.
Welcome to China!

La Cina di internet bloccato, della completa assenza dell’inglese, della super autostrada che attraversa il deserto e del “questo solo in Cina può succedere!”.

Cerchiamo di approcciare tutto ciò con gradualità, così come vogliamo approcciare con gradualità il caldo del deserto. Nonostante i 1800 chilometri da pedalare in meno di 20 giorni, optiamo per attraversare le montagne dello Xinjiang, a differenza di molti cicloviaggiatoro che si lanciano a tutta velocità sulla mitica autostrada G30.

La consapevolezza di aver scelto la strada giusta non tarda a venire. Ci lasciamo alle spalle il caldo afoso di Yili inerpicandoci sui primi passi cinesi, su strade perfette circondate da inaspettati paesaggi alpini. Il tutto condito dagli innumerevoli turisti, rigorosamente cinesi, che invadono l’area con le loro super macchine per godere dei finti villaggi dei nomadi kazaki, scattando foto con campi di fiori e, soprattutto, con due viaggiatori italiani in bicicletta! Già, siamo l’attrazione principale dell’area. Intere famiglie si catapultano dai loro SUV (le utilitarie sembra proprio che in Cina non esistano), interrompendo bruscamente i nostri pranzi, pur di farsi un ” selfie” con noi.
Qualcuno ci ricompensa con Redbull e fredde bottigliette d’acqua, altri con un semplice “Xiexie” (Grazie). Dato che la maggior parte di chi ci ferma non parla inglese, spesso la situazione rasenta il grottesco: una macchina si ferma, ne scende un uomo armato di telefonino che, senza proferire parola, si avvicina, ci mette in posizione, scatta la foto, ringrazia, sale in macchina e se ne va, senza chiedere nulla! Chi siamo, cosa facciamo, da dove veniamo, dove andiamo. Niente! Cosa ne sarà della foto sarà per sempre un grande mistero per noi.

I giorni e le pedalate tra le montagne di Yili scorrono piacevoli tra verdi montagne oltre i 3000 metri di quota, fiumi ed improvvisi sterrati. Il paesaggio ci appaga di ogni fatica e soprattutto godiamo delle fresche temperature delle montagne. Superato l’ultimo passo tra le montagne è tempo di fare i conti con il deserto, non abbiamo più scelta. Le alte quote sono finite e la strada, inevitabilmente, porta lì dove la terra è al suo punto più basso e più caldo, è tempo di affrontare il Taklimakan.

La mattina comincia alla quota di oltre 2000 metri con piacevoli 10 gradi di temperatura. L’avanzamento verso la zona desertica è scandito da un cambio di paesaggio veloce e sorprendete quanto la discesa. Dalle tipiche cime verdi e brulle delle alte quote, si passa per i primi accenni di alberi intorno ai 1600 metri, alberi che però bruscamente si interrompono per cedere il passo a cime rocciose.

Dai 10 gradi della mattina siamo passati ai 40 gradi in men che non si dica. Uno shock per il nostro corpo. Uno shock vedere all’improvviso davanti a noi il deserto. Alle nostre spalle non si vedono più le verdi cime, solo impressionanti giganti di terra rossa, davanti ai nostri occhi la torrida distesa infinita di rocce e sabbia. Ci concediamo una breve pausa nel primo accenno di paesino, per capire dove siamo e dare tempo al nostro corpo di abituarsi al cambio di temperatura repentino. Troviamo riparo sotto uno sparuto gruppo di alberi in quello che sembra un giardino condominiale. Il caldo è terrificante, non si respira nemmeno all’ombra! Mentre proviamo a cucinare qualcosa e a far nuovamente funzionare il cervello, veniamo circondati dai vari abitanti del condominio. Tutti di etnia Uyghur. Una giovane coppia ci regala una scatola enorme piena di simil-frappe, un gruppo di bambine ci allieta con giochi e sorrisi, ed un giovane ragazzo con suo padre ci regalano della refrigerante acqua gelata! Non solo, insistono per ospitarci nella loro casa a Toksun, prima grande cittadina in questo lato del deserto. Accettiamo volentieri l’invito e poco dopo la loro partenza in macchina ci imbarchiamo nei 20 km di pedalata che ci separano dai nostri primi ospiti sconosciuti, in Cina.

20 km che ci fanno saggiare cosa sarà il deserto nei prossimi giorni. Il sole è insopportabile così come il forte vento laterale che ci costringe a pedalare con la bicicletta inclinata rispetto alla strada! Impieghiamo due ore per raggiungere Toksun. Dove è necessario l’aiuto di una intraprendente signora Uyghur per permetterci di trovare i nostri ospiti, che ci hanno dato il numero di telefono ma l’apparecchio risulta spento! Grazie alla signora, che costringe un addetto della compagnia telefonica a fornirci informazioni personali sull’utente del numero di telefono in nostro possesso, arriviamo da Amir e la sua famiglia, che vivono al quinto piano di un intricato complesso di palazzi, il cui cortile interno è interamente occupato da enormi panche di legno delle quali capiamo l’utilizzo solo la mattina seguente.

La notte passa senza chiudere occhio a causa del caldo. Proprio non si respira. Con sollievo sentiamo suonare la sveglia alle 5 ed in men che non si dica siamo pronti a partire. Vogliamo sfruttare al meglio le poche ore di aria respirabile che il deserto regala prima del sorgere del sole. Le panche di legno, vuote il pomeriggio prima, sono ora piene di intere famiglie che dormono beate al fresco del mattino. Il caldo nelle case è talmente tanto insopportabile che tutti, o almeno coloro che non possono permettersi un condizionatore (e sono molti) dormono in strada. Naturalmente parliamo degli Uyghur. Gli Han in questa parte di Cina, vivono principalmente nelle grandi città. I villaggi caldi e difficili del deserto sono terreno dei laboriosi, curiosi, intraprendenti e amichevoli Uyghur. Che la convivenza tra le due etnie è, purtroppo, difficile si percepisce dalla massiccia presenza di militari, e dei metal detector agli ingressi dei negozi e delle stazioni.

Comincia così la nostra pedalata nel deserto, tra villaggi fatiscenti, letti in strada e tanta accoglienza.

Accoglienza che contrasta con il deserto che accogliente proprio non lo è. Bisogna pedalare di notte per evitare il più possibile il sole che, non appena fa capolino, infuoca le rocce e l’aria. La strada poi non aiuta. La G30 è un’autostrada a 4 corsie, interamente percorsa da filo spinato (moderno esempio di costruzione di muraglia cinese). Una volta che sei dentro, è davvero difficile uscirne. Purtroppo è l’unica strada che attraversa questa parte di Cina e così spesso vediamo gruppi di ciclisti cinesi che pedalano in senso opposto. Ai caselli il personale ci sorride, affatto sorpreso di vedere biciclette in movimento su questa enorme e trafficata arteria. Ci fanno compagnia di giorno Suv, camion che trasportano i famosi meloni di Hami (famosi perché sono buonissimi!) e le sporadiche stazioni di servizio. Oasi per la nostra sete di fresco.

La notte troviamo rifugio sotto i ponti autostradali. Cercando di dormire nonostante il costante rumore dei camion sopra la testa e le tempeste di sabbia che vanno sempre più ad aumentare a mano a mano che procediamo verso est.

Siamo a 110 km dalla cittadina in cui dovremmo prendere il treno per uscire dalla Cina, Jiayuguan. Ci svegliamo bruscamente alle 2 di notte sorpresi da una violenta tempesta di sabbia. Attendiamo che suoni la sveglia alle 3 per capire cosa fare. La tempesta sembra non accenni a diminuire. Titubanti montiamo in sella e cominciamo la sfida con il nostro peggior nemico, il vento.
Ci fermiamo ogni chilometro, esausti, chiedendoci continuamente se abbia senso continuare a pedalare o valga la pena provare a prendere un autobus. Il vento è talmente forte che non riusciamo a superare i 5 km/h in pianura. Non solo, spesso veniamo investiti da violente folate che ci scaraventano al centro della carreggiata.

Copriamo così in mezza giornata nemmeno 20 chilometri, sopraffatti dalla stanchezza decidiamo di rifugiarci al casello autostradale e cercare di decidere cosa fare, dove ci accoglie una poliziotta Han che subito ci prende sotto la sua ala protettiva. Non parla inglese e comunichiamo tramite traduttore. Tutto lo staff ci sconsiglia vivamente di provare a proseguire, ci dicono inoltre che le previsioni sono in netto peggioramento. Decidiamo quindi, a malincuore, di fermarci e provare a prendere un autobus. La ragazza fa di tutto per trovarci un posto per dormire al riparo dal vento, e ci aiuta ad organizzare il trasporto a Jiayuguan il giorno successivo.

È la prima volta che decidiamo di prendere un mezzo a causa del vento. Se i giorni di visto fossero sufficienti continueremmo a lottare strenuamente sui pedali per raggiungere la nostra destinazione, fosse anche facendo 5 km al giorno. Ma l’orologio della burocrazia scandisce inesorabile le sue ora e se non vogliamo incorrere in seri problemi, dobbiamo cedere e prendere un mezzo per i restanti 90 km.

Arriviamo a Jiayuguan in uno strano giorno di pioggia, rattristati per non aver potuto percorre questi ultimi chilometri nel deserto. Deserto duro ma affascinante, trafficato e silenzioso allo stesso tempo. Deserto dagli incredibili paesaggi rocciosi, rocce rosse, rocce che raccontano la lunga storia di questo pianeta. Rocce che ogni giorno si modificano al sole ed al vento, così come si modifica il nostro viaggio e la nostra vita. Stiamo già sognando le alte cime del Tibet, ma non riusciamo a dimenticare questi 20 giorni trascorsi in condizioni molto diverse da quelle a cui eravamo abituati. Non sapevamo pedalare lungo le difficile salite alpine e lo abbiamo fatto, non sapevamo pedalare nelle fredde terre della steppa e lo abbiamo fatto, non sapevamo pedalare nelle alte terre del Pamir e lo abbiamo fatto, non sapevamo pedalare nel caldo deserto cinese e lo abbiamo fatto, montiamo sul treno direzione Hong Kong desiderosi di imparare a pedalare tra le alte cime del Tibet!

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